VEDI SOLO QUELLO CHE AMMIRI
Mikel Azurmendi

Icaro – Henri Matisse
Qualche anno fa, uno dei più famosi critici enogastronomici italiani pose nel suo blog questa domanda:
COME TOGLIERE L’ANIMA AD UN VINO – ISTRUZIONI PER L’USO
O, almeno, a che soglia di ipertecnicismo il vino perde l’anima?
Questo il mio intervento:
Credo che quando Veronelli sosteneva che “il peggior vino contadino è migliore del miglior vino industriale” non si riferisse a migliore in quanto a sapore, bensì al fatto che, col vino contadino, lui poteva giungere a un rapporto “intimo” che non avrebbe mai potuto ritrovare in un prodotto industriale certamente non cattivo ma senz’anima, cioè un vino ogni anno pedissequamente uguale a se stesso, senza carattere, senza quelle note distintive che in un vino “contadino” fatto con amore per la propria terra e per la propria vigna sono sempre uniche e tuttavia anno via anno diverse, dettate solamente dalla terra, dal tempo e dall’uomo.
Nel film di Ridley Scott “Un’ottima annata”, ambientato in una tenuta vinicola in Provenza, c’è uno scambio di battute tra Max (il protagonista inglese) e l’affascinante locandiera di cui si è innamorato.
Max: “questo posto non è adatto a me”.
Locandiera: “Sei tu che non sei adatto a questo posto”.
Rispondo alla domanda: L’anima al vino si toglie quando il vino è fatto da chi “non è adatto a questo posto”.
È chiaro che, con quel suo paradosso, Veronelli non negava la validità dell’intervento enotecnico, bensì intendeva che “Le pratiche che rispettano l’integrità della composizione naturale del vino sono lecite nella misura in cui apportano un’intelligente correzione alle sue imperfezioni. la Natura, nella sua infinita sapienza, ha tutto previsto perché l’uva, se è sana, se è colta al punto esatto, si trasformi in vino col minimo aiuto dell’uomo, che deve favorire i fenomeni naturali, non alterarli.”
Tutto ciò, strana la cosa, mi è tornato alla mente nel pomeriggio di ieri, durante la messa celebrata in commemorazione di Enrico Mattei, il grande capitano d’industria che nel dopoguerra trasformò l’Italia da Paese prevalentemente agricolo in potenza industriale, l’italiano più potente e conosciuto al mondo dopo Giulio Cesare, il nostro concittadino più illustre, nato in Acqualagna ma poi vissuto, in gioventù, a Matelica.
La storia è che zia Maria, una delle quattro sorelle del mio babbo, a metà degli anni 50 era andata in sposa ad Antonio detto Nino, siciliano di Catania appuntato nei carabinieri di stanza nel nostro paese, trasferito qualche tempo dopo proprio a Matelica.
Con ciò, negli anni seguenti, spesso in concomitanza dell’incontro di calcio tra la squadra locale e la gloriosa U.S. Falco Acqualagna, si andava a trovarli con la vecchia 600.
Ricordo però, e molto bene devo dire, altri miei passaggi solitari in quella cittadina.
A vent’anni, sfrecciavo in sella alla mia moto pazzo come Antonio Ligabue sulla sua Guzzi quando, con i quadri da vendere legati sulla schiena, attraversava i paesi della Bassa reggiana. In realtà io non avevo quadri legati sulla schiena, ma “ben altro” fisso in testa che dritto portava ad una sorprendente bellezza di boteriana fisicità di Villa Potenza, piccola frazione in comune di Macerata che avevo conosciuto, tempo prima, in uno dei miei frequenti viaggi in treno.
Ma è del 1979, senza ombra di dubbio, il viaggio a Matelica che in assoluto ricordo con più piacere, giusto quello che mi è tornato alla mente ieri durante la commemorazione dell’Ingegner Mattei.
Matelica è, assieme a Jesi che ne produce la gran parte, una delle due patrie del Verdicchio.
Vino da omonimo vitigno autoctono a bacca bianca, colore giallo paglierino con riflessi verdognoli, profumo fine e persistente, gusto asciutto, armonico, con retrogusto gradevolmente amarognolo.
Rewind:
Una mattina faccio posto nel baule della FIAT 1100 a due damigiane nuove e parto di buonora. All’arrivo zio Nino, che mi vuole veramente un bene dell’anima, è già sul portone in trepidante attesa. Ci dirigiamo poco fuori Matelica, non saprei dire esattamente dove, nel mio ricordo c’è solo la stradicciola che sale la verde collina. Fermo la macchina sull’aia di una casa colonica: «Siamo arrivati», dice lo zio.
Ci viene incontro con andatura pencolante alla G’vann de Romolo, maniche di camicia arrotolate al gomito e cappellaccio in testa, un tipo segaligno sulla mezz’età, col quale mi avvio verso la cantina.
Dopo svariati assaggi, forse troppi, riempita alla fine una damigiana con dell’ottimo Verdicchio e l’altra con un non meglio identificato rosso da uve merlot, e portata a termine la trattativa durante la quale zio Nino mi dimostra anche in quel frangente la sua integrità morale rimanendo sempre in disparte per non far pesare sul prezzo la sua appartenenza all’arma Benemerita, riprendiamo la stradicciola bianca. La zia ci aspetta, zinale infarinato, con le sue specialità. A pomeriggio inoltrato, salutate “le cuginette”, dirigo infine la 1100 per la via di casa.
L’indomani, sceso nella bella cantina in pietra della casa del Petriccio, lavo e metto ad asciugare le bottiglie acquistate tempo prima a Pesaro in una rivendita sita in via Gramsci, bordolesi di vetro verde per il verdicchio e borgognone color tonaca di monaco per il rosso, assieme anche ai migliori tappi di sughero spagnoli e a etichette che riportano la scritta “Il mio vino per gli amici”.
La settimana seguente, il prelibato nettare ormai riposato dai disagi del viaggio, luna all’ultimo quarto e giornata secca e serena, avvinate le bottiglie do il via al sacro rito dell’imbottigliamento, al che, portato a termine l’inserimento dei pregiati sugheri con la mia tappatrice a ganasce in ottone, appongo su ogni bottiglia l’etichetta. Per finire in bellezza, non può mancare una colatura di rossa ceralacca.
Quello che posso dire adesso è che, nel corso dei miei anni, ho avuto la fortuna di assaggiare alcuni grandi vini, certo poche le volte, se penso al piacere che avrei potuto trarne. Ricordo più di altri uno Sciacchetrà delle Cinqueterre, un Sassicaia e, sopra tutti, un Picolìt Colli Orientali del Friuli dei Conti di Maniago sturato un 9 gennaio di chissà che anno per festeggiare il genetliaco di mia madre, prosciugato poi la sera in cantina con gli amici. Emozione questa non facile da raccontare.
Ma, non so perché, sfuggente il motivo o forse no, la gioia compiuta, e più intimamente percepita, all’assaggio di quel Verdicchio di Matelica prodotto da un contadino sconosciuto non l’ho più provata. C’era del vero, in quel paradosso di Veronelli.
Ritorno al finale del film, quando Max, baciando la locandiera, le sussurra:
Perdona le mie labbra. Trovano la gioia nei posti più inaspettati.
E torno a me adesso che, ripensando al tutto, troppi anni dopo mi ritrovo a sussurrare a quell’eccelso Picolìt:
Perdona le mie labbra. Hanno trovato la gioia in un posto inaspettato.
Un Verdicchio contadino di Matelica di cui, ahimè, nomen nescio, non conosco nome.
“Del resto medita: la scienza dell’uomo ha conquistato lo spazio e non ancora il meccanismo delle infinite metamorfosi del vino. Vi è qualcosa che sfugge, qualcosa che solo noi conosciamo, con cui solo noi comunichiamo, noi che amiamo il vino: la sua anima”.
Luigi Veronelli
Vedo solo quello che ammiro.
Ammiro solo quello che mi tocca l’anima.
L’unica superstite
28/X/ 2020
Eccellente racconto che riporta alla mente vecchi sapori, odori, nebbia di un tempo che ha forgiato le nostre vite. Grazie