5° RACCONTO
BUON NATALE

Il mio presepe di cartapesta leccese

È un Natale triste, un Natale lontano dalla famiglia.

La necessità di ridurre il pericolo della pandemia da Covid ha regolato in modo diverso la vita di tutti, anche in campo lavorativo. Conseguentemente a ciò, turni di lavoro assurdi prevedono la mia presenza anche in questo giorno, per me molto importante.

Questo fatto mi priverà di quelle cose piccole, di quei gesti semplici ma significanti che, anno dopo anno, sono diventati per me tradizione: l’allestimento del presepe, la cena della Vigilia, la messa di mezzanotte immancabilmente preceduta dall’apertura dei regali.

Il desiderio è mancanza di qualcosa, come diceva Platone. D’altronde, nel suo significato etimologico, desiderio deriva da de-sidera, mancanza delle stelle, essere lontano dalle stelle.

Quest’anno, in occasione delle feste natalizie, avevo idea di fare il bostrengo, il dolce più tipico delle Marche (bostrengo nel pesarese, frustingo nell’ascolano, frostengo nel maceratese), ritenuto da molti essere addirittura il dolce più antico della tradizione italiana, a dire il vero in Acqualagna abitualmente non molto cucinato, al contrario delle vicine Urbania, Sant’Angelo in Vado e soprattutto Piobbico, dove questo dolce sembra abbia avuto origine, e dove un antico proverbio locale ricorda:

Piòv e néngw, tutt le vecchiw fan èl bostréng.

Pazienza, non potrò concretizzare questa idea. La mia non presenza, però, sarà solo fisica. Mi aiuterà, molto, con-siderare il ricordo dei Natali trascorsi.
Li ho in mente tutti, nitidamente. L’ultimo io e mia figlia Ilaria, entrambi molto golosi di mandorle, avevamo preparato

I ricciarelli

Ovviamente, non era una ricetta la finalità di questo mio scritto, piuttosto quella di farvi pervenire gli auguri di un Santo Natale.

Tuttavia, le mandorle del bostrengo e dei ricciarelli me ne hanno riportato alla mente uno di molti anni fa, che interpreta sicuramente con parole più adeguate quello che sento e, in tutta sincerità, non credo, oggi e in futuro, di poter riuscire ad esprimerlo meglio.

LA COLLA

Sai quella colla che si usava a scuola? Quella dentro a quei barattolini col coperchietto e la paletta per spalmare che si infilava all’interno nell’apposito spazio, il cui odore ho sempre associato fin da piccolo, chissà perché, alle mandorle amare che ho scoperto, più tardi, essere lo stesso odore del cianuro.

Quell’odore mi piaceva tantissimo, dico meglio, mi piace, dato che ancora oggi quella colla si trova in commercio, anche se il barattolino, inerme vittima del progresso, ha lasciato il posto ad un anonimo stick, per cui i bambini di oggi, anche se usano la stessa colla e dunque hanno l’opportunità di godere dello stesso profumo, non possono immaginare cosa hanno perduto, il sottile piacere dell’aprire, della scoperta, il gesto solenne dell’estrarre dal suo posteggio la paletta, guardare per un momento la superficie lucida, intonsa, simile a un lago ghiacciato, decidere – e questa è la cosa più importante- sulla quantità di colla da rimuovere lasciando una scia lieve e diritta come una slitta sulla neve.

Voi siete come quella colla.

Voi siete come quella colla, speciale per attaccare fogli di carta, tanto è vero che è lì da tanto tempo, sempre la stessa, anche se l’involucro è diverso. Questo significa che è un prodotto insuperabile, quantomeno non ancora superato per attaccare fogli di carta, che sono il luogo dove spesso vanno ad abitare le parole dopo che sono nate.

È vero che certe colle sono più potenti, più forti, più ricercate, ma per un foglio di carta…

A volte la vostra “compagnia” fa incazzare come le altre, ma è la fragranza che è diversa, perché non chiede ma domanda, non pretende ma protende, e attende. E alla fine il differente è che quando hai bisogno c’è, quando la chiami arriva, e come la paletta prende la colla, lascia una scia lieve e dritta come una slitta sulla neve e rimette insieme i tuoi fogli, e tu senti l’odore, che è un odore buono.

Questo collante è (ho aggettivi e avverbi troppo poveri per definirlo, dunque non ne appongo) per i fogli/figli

È dimostrato da quelle persone che pur non aprendo lo stesso barattolino, non immergendosi nello stesso odore di mandorle amare, a volte chiedono di incollare i loro figli ai vostri, perché se è vero che queste persone di solito fanno uso di essenze diverse, pur tuttavia percepiscono che il modo più naturale, più semplice per riattaccare i loro fogli/figli, in cui sono andate ad abitare le loro parole dopo che sono nate, è quello di usare quella paletta e quella colla, anche se probabilmente riferiscono l’odore che percepiscono non alle mandorle amare ma al cianuro: forse penseranno che il veleno, in giuste dosi, è ampiamente usato in farmacologia.

Ecco, questo è quello che avrei voluto aggiungere, che avrei voluto sottolineare nel fax che ho inviato a Tony per il suo matrimonio: la differenza di tutte le compagnie da questa, il pensiero dominante che ho dovuto sottintendere per non urtare la suscettibilità di persone che erano lì presenti, persone comunque importanti nella vita di Tony, fra le quali c’erano anche “miei amici”

Ad alcuni di questi mi è capitato di chiedere a volte, dato il tipo di lavoro che faccio, se avessero potuto accompagnarmi alla stazione:

“Ma… è troppo tardi… dopo devo…”

“Non importa, grazie”.

O all’aeroporto:

“Ma… è troppo presto… dopo non posso…”

“OK, grazie lo stesso”.

“M’arcòrd, sé m’arcord bén, che quant na robba me va tla testa èn va più via, dura malé resta”.

LA COLLA.

Tony una volta mi è venuto a prendere alla stazione di Fossato di Vico con mezzo metro di neve sulla strada, era tardi, con lui c’era Giovanni. Per tornare è stata un’avventura. Siamo arrivati a casa alle tre del mattino, alle cinque Tony doveva partire con il camion.

Un’ altra volta.

Giovanni è venuto a prendermi alla stazione in Ancona, il treno doveva arrivare alle cinque del pomeriggio ma sempre a causa della neve è arrivato alle nove e mezza di sera, lui ha aspettato lo stesso, ha organizzato una staffetta (la staffetta è qualcosa che unisce: un collante) e mi ha portato fino a Calcinelli, dove c’erano Antonio, Fabio e mi pare Tony (ma i nomi non sono importanti) che mi hanno accompagnato fino a casa.

E tutte le altre volte di tutti gli altri.

Ma c’è una cosa che non dimenticherò mai finché avrò vita.

Il giorno che nacque Jacopo fui invitato a cena a casa di Marco Marini. Cerano Antonio, Fabio, Tony, Marco naturalmente, credo Ciampi. La Neo era all’ospedale. Prima di mangiare, qualcuno, forse Giovanni, ha chiesto una preghiera per mio figlio.

Veni Sancte Spiritus.

Gente che conoscevo, ma superficialmente, e verso la quale nutrivo pregiudizi e preconcetti ha pregato per mio figlio, ha lasciato una scia lieve e dritta come una slitta sulla neve, ha rimesso insieme i miei fogli, e io ho sentito l’odore, che era un odore buono, come quello di quella colla, speciale per attaccare fogli di carta, che sono il luogo dove sempre vanno ad abitare le mie parole dopo che sono nate.

P.S
A proposito, solo recentemente ho scoperto un fatto curioso: anche a mio figlio piace questo tipo di colla, ma egli si spinge molto più in là di me, qualche volta la mangia. Dapprima gli ho detto che era stupido, adesso ho cambiato opinione, lo ritengo più coraggioso di me, forse è più intelligente, e ha capito che le cose bisogna assorbirle totalmente.

Peccato sia costretto a usare la colla stick: penso a cosa avrebbe potuto fare con un barattolino e una paletta.

AGLI AMICI DELL’ ARCICONFRATERNITA DELLA COLLA

Gentile da Fabriano

25/XII/2020

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