Chi non conosce Giovanni Pascoli (1855 – 1912), uno dei più grandi poeti italiani nonché uno dei più letti o studiati fin dalle scuole elementari: chi non ricorda “La cavalla storna” o “L’aquilone”? Poi su, su fino alle Superiori, con testi più complessi. Di primo acchito quello che colpisce del poeta è una sua presunta semplicità, qualcosa di bonario e rasserenante, un accordo pacato con la natura, le cose, la tradizione… Eppure in Pascoli c’è qualcosa di più, quasi misterioso. Ricordo ancora con grande affetto e riconoscenza le chiacchierate con Don Irmo (tra i miei libri c’è una raccolta di poesie che mi regalò, datata 1936!). “Guarda che non è facile come sembra. Leggilo per bene: è complicato.” E aveva proprio ragione perché una lettura attenta del poeta romagnolo, rivela qualcosa che va veramente oltre ogni stereotipo. No, Pascoli non è un poeta banale, vale la pena leggerlo, con attenzione, senza perdere di vista la sua biografia, i suoi gusti, la sua formazione culturale, l’amore per la sua terra, il suo desiderio… Un desiderio combattuto tra speranza e delusioni, tra gioia e dolore e indebolito da un velato pessimismo. Nella poesia pascoliana colpisce il tema della promessa non mantenuta, quindi della sconfitta e della consolazione. Quel “destino buono” incarnato dalla famiglia, dalle origini, dalla terra, non porta a compimento la sua strada, lasciando irrompere nella vita del Pascoli bambino una sorta di familiarità con la morte. A cominciare dalla morte del padre Ruggero, assassinato, che getta nell’animo del figlio un oscuro velo di dolore e sfiducia; il genere umano diventa la cifra colpevole di quella morte; il mondo “quest’atomo opaco del Male!” (“X agosto”) un luogo inaffidabile, a cui sfuggire. La natura, le cose, la perenne presenza del Mistero (magistralmente rivisitate poeticamente attraverso gli strumenti del Simbolismo) diventano un luogo privilegiato, di conforto ed esplorazione, in cui lasciarsi avvolgere, rasserenare. Pascoli, comunque, non rinuncia alle grandi domande, ai grandi temi e il suo doloroso percorrere la storia, tra memoria e presente, lascia spazio a riflessioni esemplari sull’esistenza umana e il suo destino. A questo proposito ho scelto una piccola poesia per aggiungere un elemento importante alla lettura del poeta. Si tratta de Il tuono, all’interno della raccolta “Myricae”.
IL TUONO
E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla.
C’è un male grande che perseguita l’uomo: il nulla (rappresentato nella poesia dalla “notte nera”). E’ questa la logica a cui sfuggire, è questo che il poeta – interpretando l’intera umanità – teme di più, perché è la condizione che svuota tutto che priva memoria e desiderio. Un nulla che spaventa che scuote lo sguardo umano sulla vita (come il bambino è scosso nella culla dal fragore del tuono). Così, come un soffio divino, il canto della madre riporta la pace, la certezza affettiva con la quale andare avanti… Sarebbe un errore interpretare o ridurre tutto a sentimentalismo, piuttosto andare al fondo del bisogno dell’uomo. Pascoli, a modo suo, lo fa.
Bruno Bonci
[Giovanni Pascoli]