1° RACCONTO
MARCEL PROUST E LA SUA MADELEINE

MARCEL PROUST E LA SUA MADELEINE

Tè e caffè d’orzo

La nonna Rosa, in cucina, mi ha insegnato ad avvertire coi sensi le cose.
Pertanto, queste mie storie più o meno gastronomiche e la loro condivisione non potevano iniziare che con “Du Côté de chez Swann – Dalla parte di Swann”, il primo capitolo della Recherche du temps perdu di Marcel Proust, perché quando si parla di memoria dei sensi, dell’olfatto e del gusto in particolare, non si può non riandare all’episodio, di per sé banale, della piccola madeleine imbevuta nella tazza di tè: Tutta “L’Opera-Mondo” che è la Recherche prende vita da questo movimento epifanico che diventa rivelazione attraverso l’odore e il sapore, dunque attraverso l’azione dei sensi. Azione dei sensi che, come sostiene Proust, scaturisce non da un fare, un agire intenzionale, bensì da una memoria del tutto involontaria, da una percezione, da un sentire. Peraltro, tutto ciò non può essere riducibile a un processo semplicistico attraverso il quale la percezione di un odore e di un sapore ci riporta, senza preavviso alcuno, a un determinato ricordo, quanto invece all’incontro tra l’oggetto che ci sta di fronte, che impone il metodo, e i nostri organi sensoriali, eliminando la dicotomia temporale, facendo riemergere da un tempo perduto un’emozione rimasta nascosta ma viva nella memoria, che sola può restituire adesso, nel tempo presente, un allargamento di consapevolezza libero e assoluto.

Quando un perché accade e va a ripescare nella memoria e riempie il vuoto e fa risorgere un perché già accaduto, partendo spesso da un dettaglio di poco conto per arrivare sempre ad una riflessione introspettiva, Proust recupera il Tempo passato e lo trasforma in Tempo ritrovato, trasforma cioè il tempo quantitativo in tempo qualitativo, in tempo opportuno, Cronos in Kairos.
Proust lo fa mirabilmente con la scrittura. Allo stesso tempo, però, offre l’opportunità di fare la stessa cosa a noi, se solo leggiamo attenti la sua opera.


Marcel Proust

Al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè.

Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano Petites Madeleines e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una “cappasanta”. E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me.

… E all’improvviso il ricordo mi è apparso. Quel gusto era quello del pezzetto di madeleine che zia Léonie la domenica mattina a Combray […] mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio quando andavo a darle il buongiorno in camera sua.

LA MIA MEMORIA INVOLONTARIA: UNA TAZZA DI CAFFE’ D’ORZO

Ormai da qualche anno, a casa nostra, l’amata vecchia tradizione della buona tazza di caffè che immancabilmente chiudeva le faticose giornate ha lasciato il posto, causa il fugit irreparabile tempus e sue conseguenze problematiche, all’abitudine meno gustosa per le papille ma certo più salutare e rilassante di tirare tardi con una tazza di caffè d’orzo, prima di andare a letto, d’inverno davanti alla stufa, d’estate in terrazza guardando le stelle in silenzio.

E all’improvviso il ricordo mi è apparso.

Durante la bella stagione, trascorrevo intere settimane a casa dei nonni. La mattina, appena sveglio, la nonna per lavarmi mi metteva in piedi sopra al lavandino di graniglia, proprio di fianco alla finestra che dava sul campo di bocce. Avrò avuto sì e no tre anni. Questo mio ricordo visivo, direi fotografico del campo di bocce che intravedevo tra il fogliame odoroso dei tigli, e degli altri bambini più mattinieri di me già fuori intenti a giocare, è associato in modo indissolubile all’odore del latte col caffè d’orzo, che mio nonno intanto aveva preparato e messo sul tavolo, assieme a certi biscotti di qualità assai scadente conservati con cura in un sacchetto di plastica trasparente. La persistenza di quell’odore mi colpiva ogni volta, tanto che me lo ricordo ancora, forse perché così diverso dall’aroma che percepivo a casa mia, quello del caffelatte fatto col caffè “buono”.

Quando mia moglie mi ha raggiunto in terrazza con in mano la tazza di caffè d’orzo, subito l’aroma forte della bevanda ha coinvolto la mia percezione olfattiva, aprendomi il nascondiglio dei ricordi: un impensabile tingolo di immagini via via riscoperte, percepite, riassaporate, e questo anche grazie all’apporto considerevole di tutti gli altri sensi, tutti sempre in certo qual modo coinvolti, perché se è vero che basta un banale raffreddore per non riuscire più a distinguere nitidamente il sapore del cibo, allora dico che è altrettanto vero che quando si assapora un biscotto inzuppato nel tè il senso tattile, oltre che nelle dita, è anche nella lingua dove vanno a posarsi la preziosa madeleine proustiana o il  biscotto di scadente qualità del nonno che sia. Da ciò, pur se a tutto questo udito e vista fanno da contorno, non potrei mai rimuovere dalla mia mente il rumore del caffè che borbotta nella caffettiera del nonn Anselmo, e l’immagine del campo di bocce oltre la finestra, dei tigli odorosi, dei bambini intenti a giocare in un mio tempo passato, e il sorriso di mia moglie in quello presente.

C’è un altro ricordo, legato all’odore del caffè d’orzo. Sempre al Petriccio, sempre a casa dei nonni. Stavolta però da basso, dove c’era la sacrestia. Avrò avuto sette, otto anni. La nonna mi aveva messo a letto presto:
«D’mèna c’è ‘l convènt, è da servì la messa».
Io non capivo cos’era questo convento. Per me il convento era dove stavano i frati. E lì i frati non c’erano, c’erano i preti. Ho capito tutto molti anni dopo, semplicemente andando a cercare spiegazioni sul vocabolario.

CONVENTO: Luogo dove i fratres conveniunt; anche con il significato etimologico di ‘adunanza’. Raduno, adunanza di religiosi dunque. E io unico chierichetto a servir messa. E dopo, finita la funzione, fui invitato a prendere parte a un’adunanza di tutt’altro tipo che, ricordo bene, i preti non disdegnarono affatto.
La nonna aveva apparecchiato il tavolo della sacrestia, e il nonno si era adoperato in quella che era diventata ormai da tempo, abbandonate pialla e sega, la sua specialità.
Da basso, in sacrestia:

  • Don Leonardo, padrone di casa, grande appassionato di calcio e giocatore accanito di bocce, corpulento sanguigno parroco della Parrocchia di Santa Maria Annunziata di Petriccio. Ci sequestrava il pallone all’ora della messa o della funzione serale, senza se e senza ma. Con ciò, la sua canonica era sempre affollata di bambini.
  • Don Nazareno del Piano, parroco in quella di Farneta, alto, segaligno, appropriatamente nominato Don Sventulìn per la forma non del tutto allineata delle sue orecchie. Raccontò della domenica precedente, quando, il cielo carico di nuvoloni neri, aveva suonato le campane a martello per scongiurare la grandine e salvare il raccolto.
  • Don Francesco, parroco della Parrocchia di Frontino, il più pacioso dei quattro, l’unico che, per aspetto e atteggiamento, identificava in toto un pievano, un prete di campagna.
  • Don Egizio, già prete ad Abbadia di Naro, il più vecchio di tutti, alquanto trasandato nella persona, basco in testa e mezzo toscano in bocca. Spesso lo vedevo passare in bicicletta davanti a casa mia, la veste lunga attorcigliata al fianco. Mi faceva ridere solo a guardarlo.

A conoscerlo, c’era poco da ridere. Già Ardito del Regio Esercito nella grande Guerra, insignito di medaglia al valor militare per il coraggio dimostrato nel recupero dei feriti tra le due trincee nemiche, in quella terra di nessuno dove si correva il rischio di essere colpiti dal fuoco dei due fronti, si narra che un giorno, a Cagli forse per un Convento simile a quello cui io quella mattina avevo preso parte, uscendo dalla chiesa dove aveva appena celebrato messa e avendo necessità di espletare con urgenza un bisogno corporale, si era messo a orinare contro un muretto poco distante al che, scoperto e multato dalla guardia comunale, stizzito e risoluto avrebbe risposto, pane al pane vino al vino e non certo in senso eucaristico questa volta:

“Ogg ho détt la Messa pèl cazz!”

La nonna, qui, nella mia fantasia, adesso che ripenso a questo apparato scenico dopo oltre mezzo secolo, par prendere il posto di Françoise, la governante dell’Io narrante della Recherche, ispirata a Proust da Céleste Albaret, sua governante nella vita reale. Me la immagino la nonna, di sopra in cucina, intenta a preparare uno dei suoi intingoli fumanti, adoperare le stesse parole di Françoise mentre contenta dice al nonno…

Da basso hanno gente, c’è allegria;
allora nel suo viso regolare, sotto i capelli ormai bianchi, un sorriso della sua giovinezza,
animato e dignitoso, metteva ben a posto, per un istante, ciascuno dei suoi tratti,
armonizzandoli in un ordine fine e un po’ affettato, come per una contraddanza.

I ricordi sono il nascondiglio di storie solo nostre, che spesso non vogliamo e a volte non possiamo raccontare agli altri. Questi i miei. Tra un tè e un caffè d’orzo.

È chiaro che la verità che cerco non è lì dentro, ma in me. La bevanda l’ha risvegliata, ma non la conosce. (M.Proust)

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2021-02-11T00:32:46+01:00

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